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Koffi, giornalista italiano che resta straniero

Koffi, giornalista italiano che resta straniero

08 Aprile 2009

Rivista MM del Master di giornalismo alla Statale di Milano

Succede che nasci a Lomé, in Togo. Che per 19 giorni da quando sei nato non sai cosa ne è stato della tua vita. Succede che ti trovi in un orfanotrofio, che marito e moglie, italiani, vengano in Africa, ti adottino, ti portino in Italia. Succede che diventi milanese, ma che sarai straniero. Per sempre.Matteo Fraschini Koffi è un ragazzo di 28 anni. «Italiano a tutti gli effetti», sottolinea. «Koffi (in togolese, “venerdì”, il giorno della sua nascita, ndr) l’ho aggiunto per far capire le mie origini africane ai lettori». I 19 giorni di Lomé – Confessioni di un viaggio alla ricerca della propria identità (Edizioni il circolo calante) è il libro che Fraschini ha scritto per scavare nel suo passato e affrontare il presente e il futuro. Una ricerca delle proprie origini che passa dal ritorno in Africa. Tre anni fa Matteo ha salutato i suoi genitori ed è partito per il Togo. «Sono andato a cercare l’orfanotrofio dove ho vissuto per dieci mesi. Quando ho trovato il registro con scritto a penna il mio nome e la data di nascita, ho trovato un pezzo di me stesso». Restare a Milano, per lui, era sempre più faticoso. E lo è tutt’ora, quando torna dall’Africa. «Mi sento straniero. Gli italiani non sono pronti a considerare italiano a tutti gli effetti chi è di colore». Una lunga serie di “imbarazzismi”, come lui li ama definire, lo hanno spinto a decidere di andare via. «Ogni volta che entravo in un negozio mi dicevano che non volevano comprare niente, scambiandomi per un vucumprà», racconta Matteo. Che aggiunge: «Qualche tempo fa, alla messa di Natale, ero fuori dalla chiesa, appoggiato al muro a parlare con i miei amici. È passata una signora e mi ha allungato due euro. Pensava fossi lì a chiedere l’elemosina». Riesce anche a sorridere mentre racconta. «Ormai ci sono abituato».A Milano da straniero, con pochi stimoli. «Dormivo fino a tardi la mattina e la sera andavo al pub. Riempivo le mie giornate leggendo i libri degli inviati di guerra». Così l’idea di partire. La voglia di scoprire le sue radici si sposa alla passione per il giornalismo. Matteo inizia a viaggiare. Iraq, Kosovo, Israele, Tagikistan. E poi il Kenya. «I miei genitori all’inizio erano un po’ spaventati. Poi hanno letto il libro e hanno capito che quella era la mia strada». Una piccola parte di radici l’ha trovata subito. «Non mi era mai successo di confondermi tra la folla. È una bella sensazione. Anche in Africa però fanno fatica ad accettare l’idea di un italiano di colore. Anche se il colore della pelle mi ha aiutato nel lavoro». Matteo adesso è un giornalista e fotografo free-lance. «C’è molta più diffidenza nei confronti dei giornalisti bianchi. Per me è più facile». Collabora con varie testate giornalistiche tra cui Avvenire, Radio Rai, Nigrizia, Corriere Magazine. Pezzi di inchiesta, pezzi di verità. «Sì, a volte racconto cose che i media non trattano. I sentimenti delle persone, soprattutto quelli. Non li racconta mai nessuno. Io ci provo, anche con le foto». Ha visto la guerra da vicino, ne ha sentito l’odore. Porta con sé l’immagine di un padre che consola il suo bambino, ustionato, all’ospedale di Baghdad. Adesso Matteo è in Uganda. Il suo ultimo lavoro però l’ha realizzato in Kenya: un’inchiesta sul turismo sessuale praticato da donne occidentali su ragazzini minorenni tra Mtwapa e Mombasa. Ma Matteo, allora, è più italiano o africano? «Sono italiano, senza dubbio. O meglio, sono un giornalista italiano, africanizzato, che lavora in Africa». E la famiglia? «Sono grato ai miei genitori. Ma l’adozione era una responsabilità anche per me: ero stanco di sentirmi dire che ero stato fortunato ad essere stato adottato». Il consiglio per le famiglie che vogliono adottare è chiaro: «Quando possibile, bisogna far crescere i bambini nel paese in cui sono nati. Lo so, è complicato, ma sarebbe perfetto. Nel mio caso non è stato possibile. L’orfanotrofio non era attrezzato e io ero malato». Italia e Africa abitano nello stesso ragazzo. Milano, sullo sfondo, lascia un alone di malinconia: la città che ha accolto il piccolo Matteo ha rinnegato l’adulto Koffi. Che però guarda avanti. «Sulle mie origini avrò sempre delle domande nella testa e nel cuore. Ma è il Matteo Koffi di oggi e domani, non di ieri, la persona a cui sono ora interessato».

Luciano Cremona

 

 

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