ERA MEGLIO L’AFRICA
per Vanity Fair
Già cinque morti, quest’estate: il ghetto di Rignano, tra i pomodori della Puglia, è l’epicentro di una nuova schiavitù. Un giornalista, approfittando delle sue origini togolesi, si è infiltrato come bracciante. Qui racconta le Sveglie all’alba, la fatica sotto il sole, le risse di sera. E i sogni dei migranti, che faranno piacere a Salvini.
RIGNANO (Puglia) Gli occhi neri e profondi di Charles mi squadrano diffidenti. Tarchiato, la camicia sbottonata, il tono di voce sempre qualche decibel sopra gli altri, questo ghanese sui cinquanta appartiene a una nuova generazione di caporali africani. Per entrare a farne parte, ha dovuto imparare l’italiano bene abbastanza da comunicare in modo diretto con il proprietario dei terreni in cui fa lavorare la sua squadra di venti braccianti. Mentre continua a fissarmi, parla con Komlà, l’amico togolese che ci ha presentati. Discutono in ewé, una lingua della regione meridionale, al confine tra Togo e Ghana. Ne conosco solo qualche parola, ma abbastanza per capire che c’è un certo scetticismo sulle mie intenzioni. “Tu vorresti raccogliere pomodori?”, mi domanda Charles incredulo. Poi, senza aspettare una risposta: “No, tu non ce la fai. Ti darò un lavoro più leggero, magari vicino alla macchina”. Capisco i suoi dubbi. Restare piegato sotto il sole dalle cinque della mattina al tardo pomeriggio, spezzerebbe la schiena di chiunque non sia abituato a lavorare in campagna, e se sei abituato – o non lo sei – un occhio esperto lo vede subito dal tuo sguardo, dal tuo modo di stringere la mano. Non importa che tu sia giovane o vecchio, alto o basso, magro o grasso. Un vero contadino si riconosce dallo sguardo, dall’atteggiamento, dal modo in cui ti stringe la mano. Uomini della terra non si nasce, si diventa anno dopo anno, raccolto dopo raccolto. Questa stagione, poi, è stata particolarmente micidiale. Almeno cinque braccianti – tre africani, un rumeno e un’italiana – sono già morti sui campi pugliesi. E chissà quanti altri sono caduti in silenzio. La pressione per ridurre al minimo i costi della raccolta è fortissima – due euro e mezzo per un cassone da tre quintali di pomodori che, se sei bravo, riempi in poco più di un’ora – e la cattiva pubblicità va tenuta lontana con un’omertà che ha permesso di tenere a lungo nascosta l’agonia di Arcangelo De Marco, un bracciante in fin di vita in un ospedale di Potenza. Di uno dei tre africani non c’è il cadavere, si sospetta che i caporali lo abbiano seppellito di nascosto nel tentativo di insabbiare la notizia della morte.
A Rignano, in una baraccopoli sperduta tra i campi della provincia di Foggia vivono millecinquecento persone, quasi tutte dell’Africa centrale e occidentale. Il “ghetto” è il punto di riferimento per chiunque voglia essere reclutato come bracciante. Io, sfruttando le mie origini togolesi, sono riuscito a infiltrarmi, e a restarci due settimane. A tutti ripetevo la stessa storia: “Mi chiamo Koffi, non ho documenti, parlo francese e inglese, e sono appena arrivato in Italia”. Per evitare di essere riconosciuto una volta fuori, mi ero fatto crescere la barba e avevo iniziato a portare un cappellino. Nello zainetto avevo tutto il necessario: lenzuolo, sapone, spazzolino e dentifricio. I vestiti erano gli stessi che lavavo ogni giorno.
Entro di notte, quando c’è più confusione e si vedono meno i visi delle persone. “Ecco la stanza e il tuo materasso”, mi dice Charles dopo aver intascato per l’alloggio – 2 metri per 6, da dividere con 5, 6, a volte 7 coinquilini – i 30 euro dovuti per l’intera stagione. “Dove sono i bagni?”, mi azzardo a chiedere. “Dappertutto!”, mi rispondono, indicando i campi intorno. Dopo aver dormito per qualche ora, mi sveglio alle 4. I furgoni stanno già partendo verso le campagne, strapieni. Un capo-squadra maliano chiama i braccianti uno ad uno. Con una pila illumina i nomi scritti su un foglio e il sacchetto che contiene il permesso di soggiorno di ciascuno. “Non ti preoccupare se non hai il documento”, mi ha rassicurato Charles, “quando tocca a te, te ne do uno dei miei lavoratori, chi vuoi che se ne accorga”. M’intrufolo in un gruppo di maliani che, muniti di una piccola tanica per l’acqua e di un panino per il pranzo, aspettano di essere chiamati. Un furgone parte, un altro torna a caricare braccianti. La routine, a conti fatti, cinque ore abbondanti.
Verso le 8 di mattina chiamo Sidibé. Maliano, ventidue anni, da quattro in Italia, era un ragazzino quando è sopravvissuto alla traversata del Sahara e agli spari della guerra in Libia. Ha il permesso di soggiorno, ma non la patente o il libretto dell’auto che usa come taxi: dieci euro per corsa, sui quindici chilometri che separano il ghetto da Foggia. Suo cugino Malik, di poco più grande, la patente invece ce l’ha: l’ha comprata in una scuola guida di Salerno per 550 euro, facendosi mandare i soldi dalla sua famiglia in Mali. Guida ogni giorno dall’alba al tramonto. “Sono arrivato al ghetto un anno fa”, racconta, “ma preferivo passare la notte in auto: in queste condizioni non ci dormo. Ora ho una stanza mia, la condivido con la mia ragazza”. Dopo essermi fatto lasciare vicino alla stazione, mi incammino verso l’appartamento che ho preso in affitto per scrivere il mio diario e recuperare un po’ di sonno. Come ogni giorno scelgo un tragitto nuovo attraverso i vicoli della città, per evitare di essere seguito: molti dei ragazzi del ghetto quando non vengono chiamati dai caporali passano la giornata a Foggia, a lavare i vetri delle macchine, o semplicemente a chiedere l’elemosina. Sulla strada del ritorno incrociamo un’auto distrutta. Il conducente, dopo essersi andato a schiantare contro un tubo di irrigazione, riposa in baracca, ferito:“ Non vuole andare in ospedale perché non ha i documenti a posto”, mi spiega Sidibé. Tre giorni dopo, il 2 agosto, un ragazzo della Guinea Bissau va a schiantarsi contro un imprenditore del posto e Concetta, 11 anni, la figlia dell’italiano, in auto con il padre, muore sul colpo. Su Facebook si scatenano gli insulti razzisti e nel ghetto sale la paura di ritorsioni per la morte della bambina: tutti ricordano i braccianti presi a pallottole cinque anni fa a Rosarno, o la strage di Castel Volturno nel 2008. Ma nel ghetto se ne parla poco. Inutile cercare uno spirito di solidarietà africana.
Verso le 8 di sera, invece, giro tra i bar del ghetto per guardare i vari telegiornali africani. I maliani vedono le immagini del loro Paese in guerra e maledicono l’estremismo islamico da una parte, gli interessi degli ex coloni francesi dall’altra. I burkinabé sono in apprensione per le prossime elezioni. I nigeriani ce l’hanno con la loro classe imprenditoriale. Tutti concordano su una cosa: sono qui perché pensavano di trovare una vita migliore in Italia. E tutti, alla fine, vogliono tornare a casa. “Lavorerò fino a mettere da parte diecimila euro e poi rientro in Mali”, mi giura Malick. “Tanto quello che faccio qui posso farlo anche giù, con la differenza che avrei la mia famiglia vicino”. Come ogni notte faccio tappa al bar di Komlà. Tra le baracche si sente odore di marijuana. Prostitute nigeriane e camerunesi cercano di afferrarmi il braccio e indicano con una pila la loro stanza: 10 euro per un’ora di sesso.
Dopo qualche minuto scatta al bar la solita rissa. Rose, la moglie di Komlà, ha morsicato il dito indice di un nigeriano per costringerlo a rimanere seduto e pagare il conto dei suoi amici: 5 euro, l’equivalente di due cassoni e quasi 3 ore di lavoro. Come tante donne del campo, Rose non si fa mettere i piedi in testa da nessuno. Non dal marito, con cui spesso si scambiano delle sberle, figurarsi dai clienti. Il sangue continua a colare giù dalla mano del giovane che si dimena e la maledice. Ci vogliono tre persone, e un’ora, per calmarlo. Due sere dopo, un sabato, i tafferugli esplodono davanti all’unico bar tenuto da un italiano soprannominato “il Camorrista”. Uno spacciatore della Costa d’Avorio si lancia contro di lui. “Te la prendi con me, fottuto bastardo africano!” Qualcuno li separa, il Camorrista si allontana. Se uno di noi morisse, non se ne accorgerebbe nessuno. La sola rappresentanza del governo italiano a entrare regolarmente nel ghetto è il camion dell’acqua che ogni mattina riempie le cisterne.
© riproduzione riservata