Burkina Faso, un’altra strage in chiesa «Noi religiosi costretti ad andarcene»

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BURKINA FASO - Ancora un attacco jihadista, ancora una chiesa colpita. Domenica, durante la funzione, un gruppo di militanti islamici ha preso di mira una chiesa protestante della cittadina di Hantoukoura, nella provincia nordorientale di Komondjari, in Burkina Faso. Almeno 14 persone, inclusi alcuni bambini, sono rimaste uccise . «Si tratta di un barbaro attacco – ha commentato ieri il presidente burkinabé, Roch Marc Kaboré –. Offro le mie più profonde condoglianze alle famiglie delle vittime e speriamo in una pronta guarigione dei feriti». Numerosi gruppi e fazioni armate di matrice islamica sono attivi in Burkina Faso dal 2015. Da allora sono morte oltre 500 persone tra cui 200 membri delle forze di sicurezza.

Una mattanza che semina terrore tra i villaggi e le città, costringendo le scuole a chiudere e la gente a lasciare le proprie abitazioni. «Ci sentiamo in grave pericolo», racconta ad

Avvenire padre Martin, religioso burkinabé della parrocchia di Saint Monique a Ouagadougou. «Dobbiamo ogni giorno avere a che fare con uno scenario imprevedibile, di cui non sappiamo molto, in continua evoluzione, e – continua il religioso – oggetto di cambiamenti improvvisi. La situazione sta degenerando sotto diversi pun- ti di vista». Dopo aver fatto il missionario tra l’Africa e l’America Latina, oltre ad alcuni anni di studi trascorsi in Italia, padre Martin è tornato nel suo Burkina Faso. Non avrebbe mai pensato che il Paese, una volta celebrato per la sua stabilità, si sarebbe ridotto ad una polveriera con attacchi jihadisti quasi quotidiani. «Seguiamo le notizie e gli eventi politici ma ci sentiamo impotenti – continua il religioso –. La famosa forza di sicurezza interregionale G5 Sahel non è davvero operativa e le autorità non sembrano particolarmente desiderose di risolvere la crisi». Anche il frate cappuccino Albert, missionario indiano-canadese della parrocchia di San Francesco d’Assisi a Ouagadougou, giudica lo scenario attuale pericoloso e confuso. «Non conosciamo la realtà, quindi ci muoviamo sempre fuori dalla parrocchia con estrema cautela – spiega fra Albert –. La settimana scorsa hanno arrestato un terrorista nel nostro quartiere, l’insicurezza sembra infatti ovunque ». Il 6 novembre, in un’area vicina all’attacco avvenuto domenica, sono state uccise 36 persone dopo che un gruppo di jihadisti ha sparato contro un convoglio di autobus con a bordo vari impiegati di una ditta mineraria canadese, la quale ha fermato ogni operazione. Nei mesi scorsi ci sono invece stati altri attacchi contro chiese,

moschee ed edifici pubblici. Ansarul Islam e il Gruppo di sostegno all’islam e ai musulmani (Gsim) sono tra le organizzazioni terroristiche maggiormente attive in gran parte del territorio. Per il momento, invece, nessuno dei vari gruppi islamici presenti in Burkina Faso ha rivendicato l’attacco contro la chiesa di Hantoukoura. «Sono circa 500mila gli sfollati interni – affermano le Nazioni Unite –. Si respira insicurezza in tutto il Paese, compresa Ouagadougou, attaccata ben tre volte dal 2016». Nel nord molte missioni religiose sono state evacuate dall’area. «I nostri confratelli non hanno più le missioni nelle regioni settentrionali del Burkina Faso e noi religiosi occidentali non possiamo più andarci – spiega padre Vittorio Bonfanti, missionario dei padri Bianchi –. L’insicurezza era una delle ragioni principali che ci ha costretto a lasciare la zona».

Da quando Kaboré è salito al potere nel 2015, il Paese è piombato in un vortice di violenze fomentate dal radicalismo islamico mai viste prima. Sebbene gli Stati limitrofi abbiano mostrato l’intenzione di cooperare tra di loro e con le forze straniere per risolvere tale crisi, ancora non si vedono risultati concreti.

L’INTERVISTA / I GIOVANI A RISCHIO

«La povertà spinge al radicalismo»

«Inostri leader non sono seri nell’affrontare la minaccia jihadista. Stiamo ascoltando molti discorsi ai quali però non fanno seguito delle misure concrete per combattere il terrorismo islamico nel Sahel. Giorno dopo giorno, la popolazione locale sta perdendo fiducia nelle proprie istituzioni e diventa facilmente reclutabile tra le fila dei gruppi armati». Stanley Ukeni, nigeriano esperto di geopolitica dell’Africa occidentale, è convinto che tale instabilità nel Sahel giovi a un numero ristretto di «uomini forti» africani intenzionati a rimanere al potere. Per questo il Sahel ha poche speranze di risolvere tale piaga nel futuro prossimo.

Quando sente dell’ennesimo attacco jihadista contro una chiesa nel Sahel, cosa pensa?

Credo che i leader della comunità musulmana non facciano abbastanza. Non vedo dure condanne contro tali attacchi. Certo, dicono di non sostenere il jihadismo, ma non li sento convincere i loro fedeli di quanto sia grave questo fenomeno.

Si può dire lo stesso dei capi di governo della regione?

Stanno tutti fallendo. Le autorità devono sostenere in modo serio la popolazione locale, rendendo sicuro il contesto in cui vive. Gli eserciti della regione devono organizzarsi in maniera più decisa e coordinata. I finanziamenti e le capacità ci sono. Quello che manca è una vera volontà politica. Purtroppo ogni capo di governo africano ha una sua forza paramilitare che spesso esegue il lavoro sporco in modo discreto. Nel caso della Nigeria, per esempio, sono certo che ogni presidente ha sfruttato la piaga del terrorismo islamico per ten- tare di restare al potere, gestendola dietro le quinte attraverso i propri miliziani o i servizi segreti.

Le forze straniere come la Francia o gli americani dovrebbero essere coinvolte in questa lotta contro il terrorismo islamico?

Non inizialmente. L’Africa ha i mezzi per combattere il jihadismo. Inoltre, l’arrivo di forze straniere

in un Paese africano potrebbe essere visto dalla gente locale come una nuova forma di occupazione del territorio o di necolonialismo militare. Gli eserciti stranieri dovrebbero essere chiamati solo dopo che gli eserciti africani, anche attraverso l’Unione Africana, si siano ben organizzati mostrando di essere davvero intenzionati a ripristinare la stabilità nella regione.

Il presidente del Burkina Faso, Roch Marc Kaboré, ha accusato l’ex presidente, Blaise Compaoré, di sfruttare i suoi legami con i gruppi jihadisti per destabilizzare il Paese e tornare dal suo esilio in Costa d’Avorio, cosa ne pensa?

È una tesi molto credibile. Compaoré ha governato per circa tre decenni il Burkina Faso. Però Kaboré dovrebbe istituire un organo investigativo indipendente per capire quanto l’ex presidente sia responsabile dell’anarchia in corso.

Come vede la situazione nel Sahel tra dieci anni rispetto alla sicurezza?

Il jihadismo è innanzitutto legato all’economia di uno Stato. Nei Paesi della regione ci sono ancora troppa povertà e alti tassi di disoccupazione. Se prima non si risolveranno questi due problematiche fondamentali che spingono i giovani verso il radicalismo islamico, il terrorismo vincerà.

Da sapere

I jihadisti sul territorio

Dal 2015 il numero dei gruppi jihadisti in Burkina Faso e dei loro attentati è aumentato radicalmente, anno dopo anno.

Inizialmente gran parte degli attacchi erano lanciati da al-Qaeda nel Maghreb islamico (Aqmi) che, seppur basato nel vicino Mali, continua tutt’ora a fare incursioni in territorio burkinabé. Tra i maggiormente attivi oggi c’è invece il Gruppo di sostegno all’Islam e ai musulmani (Gsim), alleato di al-Qaeda. Si tratta di un accorpamento di frange terroristiche provenienti da altre organizzazioni jihadiste e responsabile di diversi attentati, attacchi armati e rapimenti in tutto il territorio burkinabé, compresa la capitale, Ouagadougou.

Ansarul Islam rappresenta il ramo burkinabé di un altro gruppo jihadista presente soprattutto in Mali, Ansar Dine, ma attivo anche in Burkina Faso. Lo Stato islamico nel grande Sahara (Isgs) è invece un affiliato del Daesh, e ha lanciato almeno due attacchi in Burkina Faso: nel suo mirino ci sono soprattutto le forze di sicurezza locali.

C’è poi il Fronte di liberazione di Macina (Mlf).

Sebbene anche questo gruppo abbia la sua base in Mali, è stato coinvolto in alcuni attentati in Burkina Faso da quando si è formato nel 2015.

Tutti questi gruppi jihadisti hanno a loro volta differenti fazioni interne che colpiscono civili e autorità, tanto locali quanto stranieri.

Matteo Fraschini Koffi per AVVENIRE - 3 dicembre 2019 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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Matteo Fraschini Koffi - Giornalista Freelance